Qualcuno diceva voglio tornare a casa, sottovoce o con un filo, di voce e terra. Come se l'odore delle zolle fosse uguale al profumo di zenzero e cannella. Qualcuno diceva che casa non è da definirsi necessariamente in quattro mura. Forse i mattoni si trovano anche su una macchina, su una panchina, davanti ad un lago finto, in autostrada. Forse casa è un profumo, un momento, uno stato, la possibilità di allungare la mano e farsela scaldare.
O forse no.
Forse quel qualcuno si sbaglia.
Forse quello che si voleva dire si avvicinava molto alla neve, al suo profumo, a quello che si prova quando le scarpe affondano e i bambini sono felici.
Facevo i pupazzi di neve. Il naso con la carota e gli occhi con i bottoni, in testa il secchiello dell'estate girato all'insù. Infilavo i calzoni nei Moon Boot che se non erano blu forse erano rossi, schiacciavo la neve fino a farla diventare piatta e guardavo la slitta di legno scivolare da una parte all'altra del giardino.
Quanti momenti sono stati casa.
Una volta ho pensato di poter andare via.
Lontano.
Credevo fosse facile abbandonare odori, strade, visi, vie e palazzi.
Ho immaginato fosse facile avere a che fare con le radici. Invece no.
Le radici pulsano dentro.
Le radici sono la cosa per cui dormi bene la notte.
Sono la coperta della sera, il modo in cui riconosci in un'immagine riflessa il tuo viso contratto.
Provo a correre, che ne dici?
Forse un passo dietro l'altro è qualcosa che più assomiglia a quello che sarà.
Il momento. Qual è il momento giusto. Qual è il momento in cui si passa oltre a occhi chiusi.
Il punto di domanda non c'è. Non lo voglio.
Quante cose che non voglio.
Ma in Casablanca, Rick Blaine diceva:
Avremo sempre Parigi.
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